sabato 6 dicembre 2008

GOD's creature: un principe







 

L'insaccato

Questo coso è ancora un uomo? già un mostro? un uomo non coincide forse col suo viso, cioè lì dove può essere indifferentemente sublime e atroce? Non so perché questo personaggio di Freaks condensato o ridotto a un solo membro in fasce (un membro e non un organo), a un manicotto rampante, come ci mostra la fotografia, evochi l’idea husserliana di quella curiosa sottrazione dei fenomeni che permette di raggiungere l’essenza.

    Questo essere ridotto a un membro e a un’azione (nel film, il personaggio dà prova della sua abilità, cioè ci assicura circa la sua umanità, accendendosi una sigaretta), nelle sue reptazioni e in quel suo dimenarsi di coda mostruosa (invero, è l’orrore progressivamente guardabile – e solo perché lui compie un’azione – di una verga fuor di misura abbinata a una testa di pirata), questo essere minaccia in noi l’ultimo resto d’umanità. Il suo numero da fiera (dimostrazione superflua, sostenuta come fosse una prova) ci distoglie appena da un quesito più inquietante: un insaccato come questo che se ne fa, non dei suoi desideri, non del suo sonno, ma dei suoi escrementi? Non è che il maglione ci nasconde, per tutta la durata del film, braccia e gambe ripiegate ad arte, ben strette, provvisoriamente rimpicciolite, e che, alla fine, questa faccia da filibustiere magari si dà una stirata e sbadiglia? oppure, di fronte a lui, sentiamo che le nostre membra si serrano e le nostre braccia aderiscono al nostro corpo? quale potrebbe essere il destino, cioè la durata, di un simile animale? e perché la sua scatola di fiammiferi si trova su un minuscolo acquario?

    E così gli infilano una sigaretta in bocca: forse per impedirgli di gridare, per non dargli tempo, in tutta la sua vita filmata, di parlarci, oppure di rivolgere una parola a chi, dentro di noi, è precisamente “questa cosa”?

    Dunque, noi siamo “questa cosa”. E già tremiamo all’idea che nella sua vita di larva veterana – un bucaniere che, nel corso degli arrembaggi, a forza di sciabolate, avrebbe perso tutte le sue membra una dopo l’altra e che, alla fine, si sia infagottato dentro questa enorme berretta da marinaio (e quale madre poteva fargli un simile lavoro a maglia?) – temiamo di immaginare o di sapere che questo tubo che si prodiga sotto i nostri occhi in ingestioni di fumo abbia provato delle pene d’amore? allora, il mostro non è altro che una perpetua pena d’amore accompagnata da un gemito animale?

    Non so come, ma la piccola base e gli oggetti minuti che gli stanno di fronte fanno subito di lui uno scrivano pubblico.

Jean Louis Schefer, L'uomo comune del cinema (1980), Quodlibet, Macerata 2006, p. 47. (Traduzione di Michele Canosa.)

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